di Claudia Castellucci / @TeatroComandini
Al Prado, prima di entrare, ho visto la folla di persone in una coda ferma, al freddo e sotto una pioggia battente. Il mio privilegio di passare davanti a tutti, a causa di un credito concesso per la lezione di Ecfrasi(*) tenuta il giorno precedente, aumentava un disagio di ordine morale, rispetto al bisogno e alla fatica degli altri; e anche in raffronto al fatto che io non avrei fatto la coda in quelle condizioni, neppure se avessi saputo che non avrei mai più potuto vedere Las Meninas in vita mia. E disagio anche per il fatto di sentire il privilegio come tale, perché l’arte non deve essere un privilegio, anche quando si trovi nel più potente Museo d’arte del mondo: il Prado.
Il 15 Aprile 1995 feci una coda altrettanto lunga, ma era più veloce: era per il pane, a Kiev, dove mi trovavo per la rappresentazione di Amleto. La veemente esteriorità della morte di un mollusco, con la mia Compagnia di teatro. Ci pagarono con lardo, vodka e cetrioli sotto- aceto. Mancava il pane, così andai a comperarlo. Superato un passaggio sotterraneo, dove funzionava un neon su dieci, tra cambiavalute e venditori di un paio di (proprie) scarpe e polli tenuti per il collo, riemersa in superficie trovai la coda. Riferisco questo episodio perché non posso non mettere a confronto queste due code: una per il pane e una per l’arte. A Kiev c’era un bisogno. Anche al Prado c’era un bisogno.
Questo scritto vuole confrontare questi due ordini di bisogno. Due oggetti chiaramente emblematici. Nel caso del pane c’è un orizzonte di consumazione, masticazione, caloria e metabolismo: qui c’è un uso. Nel caso dell’arte c’è un orizzonte di apprendimento di sensibilità: qui c’è un acquisto. Intendo acquisto di uno stato dell’essere che sublima il possedimento materiale verso una sensibilità che si può possedere. La coda del pane è indispensabile per produrre calorie utili a muoversi. La coda del pane permette anche lo sforzo per affrontare la coda per l’arte. Non viceversa. La coda per l’arte non favorisce la coda per il pane. La coda per l’arte vale forse per riuscire a vedere qualcosa che non si vedrebbe mai più in vita? E questo è così importante da accettare di perdere ore di vita? Non sarebbe meglio fare subito qualcosa e sviluppare calore con gesti o con parole? Non sarebbe meglio generare?
La coda per il pane è un abominio. Lo è stata in tutte le epoche della civiltà umana basata sulla cerealicoltura. Il pane, come l’acqua, sono il minimo per sviluppare calore, perciò occorrono per vivere, e tutti gli aumenti del costo del pane hanno determinato proteste e lotte sanguinose nella storia. Ciò nonostante, quando il pane scarseggia, si fa per forza la coda e la si fa anche per chi non ha la forza di farla. Ma l’arte non scarseggia, e la coda viene fatta nei luoghi dell’abbondanza, aperti a tutti. Qui, ciò che scarseggia è soltanto il tempo in rapporto al luogo.
Il tempo in rapporto al luogo è ciò che delinea la nozione di viaggio. Qui, ciò che scarseggia e che si cerca è il viaggio, che è sia fisicamente, sia mentalmente un cambiamento. Cambiamento di luogo e di stato. E’ il senso di una potenza che posso acquistare. Una potenza diversa da quella che mi offre il pane, perché la trasformazione che attua può durare e non si estingue –come il pane– nell’evacuazione. Questo viaggio può durare, questa potenza può durare finché dura la vita, mentre il pane può soltanto mantenere in vita.
L’arte tocca quella parte della mente che funziona a forza di spirito. L’umanità ha bisogno di rispondere a questa parte della mente sempre molto domandante, tuttavia fino ad ora non ha mai fatto code per soddisfare questo bisogno. Non ha mai fatto proteste e rivolte sanguinose per questo. Avverrà mai? Di fronte alla coda dell’arte, mettendo cioè l’arte sullo stesso piano del pane, ammettiamo che dell’arte proprio non possiamo farne a meno. Potrebbe essere vero, ma non stando in una coda. Dovrebbe essere vero, ma creando.
Non siamo artisti? Non importa. Ricominciamo a fidarci della tecnica. Non siamo esperti? Non abbiamo idea di cosa fare? Non importa. Fidiamoci delle materie e degli attrezzi. Da soli, ci faranno fare cose che non avremmo mai pensato di riuscire a fare. Non sappiamo da dove cominciare per creare? Pensiamo alle prime cose che facciamo al mattino. Ognuna di queste cose, tu, comincia a celebrarla con scelte di colori e di forme, con stoffe, nappe, metalli, passamanerie che piano piano dovranno modificare il tuo mondo, che piano piano costruiranno un abito e un’abitudine di vita.
Non sei un artigiano? Comincia dalle piccole cose. Un portasapone. Una tazza che compri in giro, su cui disegnerai un monogramma. Non hai idea di come fare il monogramma? Schizza continuamente forme quando fai i viaggi in treno. Quando non ti viene in mente niente, consulta libri purchessia sugli incas, sugli incunaboli medievali, sugli haiku giapponesi. Non c’è più da scandalizzarsi se attingi da fonti così eterogenee e incoerenti. Non c’è più un popolo, non c’è più un orizzonte di vita comune, non ci sono più favole e miti di fondazione comune. L’età moderna ci ha destinati da tempo a essere individui.
Lo stato neo-artigianale è in salita. Dapprincipio non proveremo alcun senso di liberazione e nessun ritorno a madre natura. Ma sarà spontaneo formare un posto e il tempo che passiamo nei posti. Poi capiterà il bisogno di trovarci a discutere insieme di nuovo. Assumiamo questa condizione con spirito eclettico, ma inventivo e auto-rigoroso; auto-ricostruttivo di un orizzonte. Ecco tutto quello che si può fare per esprimere il bisogno dell’arte che quella coda tradisce e non potrà mai soddisfare. Ma il bisogno resta vero. Il turismo d’arte di massa rimanda alla massa proletaria che vuole il pane. Ma la massa riuscirà a fare propria l’arte? Riuscirà veramente a usarla?
Se pensate che io stia scrivendo paradossi o che stia criticando queste persone disposte al sacrificio del tempo passato sotto la pioggia battente e al freddo, vi sbagliate. Si tratta di riflettere, ora, su questi due emblemi: pane e arte; uso e acquisto. Gli esempi di neo-artigianato a partire da zero non ci devono rendere scettici nei confronti di un atteggiamento che giudichiamo frettolosamente naïf. Altre volte è capitato nella storia. E’ capitato, intendo, di ricominciare da quello che si aveva tra le mani, e spesso ciò che si aveva era una tabula rasa, con una spaventosa incapacità tecnica. Il mio è un inno all’arte dell’uso, non temete: non impediremo ai grandi artisti di ritornare, ma ora tocca a determinati principianti. No dilettanti, no hobby, ma pratica severa, artigianato armato, nella consapevolezza che ora tocca a noi usare l’arte. Si tratta di vedere come riuscire a usare l’arte, per capire tutto il sacrificio della coda.
…All’uscita dal Museo, la scena era di esodo. Nel frattempo, era sopraggiunto il buio e nella spianata parallela al Paseo del Prado, priva di lampioni, si intravedevano centinaia di persone sotto la pioggia battente e al freddo. Un intero raggruppamento di sfollati, alcuni con bambini, in attesa di varcare un muro. La scena era militare: un reggimento di soldati in attesa di partire, costretti intimamente a farlo. Come esiliati volontari, che si spostano per una terra promessa, o come soldati volontari: nessuno li obbliga, ma tutti obbediscono a un’intimazione. Qui abbiamo ora due concetti da trattare: intima volontà e intimazione volontaria.
In Italiano la parola ‘intimo’ ha due significati apparentemente opposti: il primo è sia un sostantivo sia un aggettivo e significa qualcosa di riposto, interno, segreto e proprio. Il secondo è un verbo, e significa entrare dentro un’intimità e abitarla con forza. E’ un verbo militare, giudiziario ed ecclesiastico. E’ un verbo che raccoglie, nella equivocità del proprio nome, un bisogno vero, un intimo bisogno di consolazione. E’ il bisogno di abitare il proprio corpo, prima di capire o avere idee, ma per farlo occorre qualcun altro che con- soli. Il bisogno di intimità alcuni lo risolvono nell’intimazione, che dice al posto loro cosa devono fare per sentirsi interi, se stessi, propri, e per sentire consolazione; e, se c’è obbedienza e sacrificio, allora l’intimazione ha un sapore, sufficientemente acre, di intimità.
Quella folla era simile a un pellegrinaggio religioso, simile alle folle di Lourdes. Non bisogna disprezzare i pellegrini. Non bisogna sentirsi superiori e illuministi rispetto ai pellegrini irrazionali, perché qui loro rendono chiaro che c’è un problema dell’uso dell’arte. Attenzione: esprimo tutto il mio rispetto verso le persone in coda, perché la stanno facendo anche per me, come soldati. Io non sono una che li osservi da un piano superiore per costruirvi sopra una sociologia. Io ho un obbligo nei loro confronti, e l’obbligo è elevare il loro sacrificio a profezia. Verso la poesia, verso un’arte dell’uso. Non aspettatevi un altro chiarimento, perché è troppo difficile riuscire a capire e a spiegare una delle pieghe più resistenti dell’arte degli ultimi cento anni: la divaricazione tra genio e tecnica, che è come dire tra proprietà e uso.
Intuitivamente capisco che quella folla non arriverà a usare l’arte, a migliorare la vita quotidiana attraverso una soddisfazione metabolica, cioè una trasformazione. Quell’attesa sfiancante è sostenuta da una teleologia; crea un significato fuori dal tempo e fuori dalla storia che sembra raggiungibile soltanto attraverso il sacrificio del proprio tempo e della propria storia. Ma questo è il punto. Il sacrificio è inutile, perché non c’è uso.
Quando, smaltita la coda, si entra nel Museo e si incontrano una dopo l’altra le opere d’arte, il colloquio si fa vieppiù difficoltoso. L’intimità si disperde e non riesce ad abituarsi all’opera. Non si riesce a sentire la precisione del rapporto tra intimità e opera. Così, era molto più perentoria e corporea la precisione della coda, quanto al rapporto tra intimità e scopo. E quanto alla consolazione, la coda è l’immagine plastica di un insieme di persone unite nel medesimo scopo. Ora, invece, varcata la soglia, si è ritornati individui, e tra il proprio sé e l’opera c’è una distanza immensa e un rapporto fiacco. La distanza della coda di prima, non è stata ancora percorsa quando ci si trova a tu per tu con l’opera. Resta ancora uno spazio disabitato.
Credo che la ragione per cui Las Meninas sia il quadro principale del Museo del Prado sia proprio lo spazio disabitato che Velasquez ha saputo ritrarre. Varcata la soglia del Prado, mi sono diretta subito a vedere Las Meninas. Da lontano, ho scorto il quadro, e mentre mi avvicinavo ho avvertito l’ingrandirsi del soffitto, come se quel quadro fosse spazioso quanto il museo. Infatti l’80% del quadro è solo architettura, e soprattutto è soffitto. Quel grande quadro ha captato e giustificato tutta la distanza che esiste nell’attesa di un incontro. Ha compreso l’apnea della speranza che è insieme debito e credito di energia prima dell’incontro. E quella porta in fondo, con il cavaliere a un passo dall’attraversarla, era la profezia di un attraversamento del quadro, per capire che quella porta è sempre aperta, che lì non c’è la coda, che lì si entra nel mondo dell’uso.
(*) Seminario sull’Ecfrasi, Museo de Il Prado, Madrid, 29 e 30 Novembre 2019, promosso e organizzato dal Festival de Otoño di Madrid, diretto da Carlota Ferrer